• avvertenza: in realtà questo racconto si riferisce a alla Fiera di Roma «Più libri più liberi» del dicembre 2008, e solo per pigrizia viene pubblicato alla fine di quella del 2009.

Resoconto parziale e più o meno orientato di uno standista alla Fiera del Libro di Roma. Il punto d’osservazione diventa più importante dell’oggetto stesso della percezione. Della fiera che dire, non c’è non è un gran che, di anno in anno mi accorgo che di cose interessanti se ne vedono sempre meno, e sono quelle che già conoscevo. Forse la verità è che le cose che dovrebbero interessarmi stanno fuori dall’EUR. Qual è il fil rouge delle mie giornate? Circa ogni due ore mi accendo una sigaretta e ogni tanto vado a fare un goccio, ogni volta nello stesso cesso, proprio nello stesso preciso cesso.

La bancarella del pesce (2008, rospe)

È dicembre. Da oltre un mese non parliamo d’altro. Roma II. Il sottotitolo potrebbe essere “O la va a la spacca”. Il nostro secondo soggiorno romano alla Fiera del Libro l’abbiamo preparato scrupolosamente. L’abbiamo preparato mentre ci piovevano addosso le scintille di notorietà riflessa da premio Nobel – oh! a proposito: grazie accademici svedesi, grazie Le Clézio, grazie Citati, grazie al xxx – Un po’ più rincoglioniti del solito ci destreggiamo tra telefonate, ordini, minacce e macchie di caffè che aderiscono come un perfetto tatuaggio ad ogni superficie che sarebbe dovuta rimanere immacolata. Siamo pronti. Per prima cosa il concept. Sì, perché da qualche anno a furia di sfottere il linguaggio anglo-scemo da manichini della neweconomy, abbiamo preso a parlare così. Allora: brainstorming (letteralmente “tempesta di cazzate”).

GS: Ci vorrei un pesce.
RS: La testa di un pesce… la testa di un pesce è più di un pesce per intero.
AlC: No, così non si capisce, si riamane a un livello simbolico. Dobbiamo andare oltre.
RS: Oltre quanto?
AlC: Molto oltre.
GS: Ma il pesce ce lo mettiamo?
[…]

Per fortuna è arrivata dalla Spagna Maite, una cara amica di GS che abbiamo conosciuto circa dieci anni fa. Ha portato con sé una nota colorata del tutto estranea alle nostre idiosincrasie quotidiane. Dopo un’oretta dal suo arrivo in casa editrice cominciamo a comunicare soltanto in una specie di lingua ispano-siculo-maccheronica che se inizialmente voleva essere un tributo divertito all’accento della nostra amica, in seguito è diventata una nuova manifestazione della nostra naturale incapacità di comunicare sensatamente. Tranne qualche rischio connesso (tipo rispondere al telefono “Hola! Todo bien? Cosas quieres?”) l’uso della nuova lingua ufficiale di :duepunti (dos puntos) si propaga e dilaga indipendentemente dalla nostra volontà. Non è male. Dalla valigia tipo Mary Poppins di Maite escono suoni, sapori, idee, colori ecc. che finiscono con l’influenzare anche il nostro concept romano.

In sintesi decidiamo di mettere su un banco da pescheria, dove al posto dei pesci ci stanno i libri, i nostri libri. Staranno ordinati nelle cassette di legno preparate per noi da Maite. Che ingegno versatile, passa dal restauro del cartaceo all’allestimento di finte cassette da pescheria (usando vere cassette della frutta riadattate e rese ancora più vissute con una specie di preparato che odora davvero di pesce andato a male). Bene, il concept è pronto: il libri sono una merce come le altre, un bene di consumo primario. In tempo di crisi tutto tira. E poi il pesce radiografato è il nostro marchio editoriale, e prima ancora è stato da sempre l’ossessione iconica ricorrente delle nostre sedute. A proposito: ma esattamente che abbiamo fatto durante i primi dieci anni di attività di :duepunti? Ci siamo preparati per questo momento. Abbiamo una certa esperienza di brainstorming.


 

Il pesce, si sa, non è mai fresco il lunedì (2008, rospe)

Siamo pronti, finalmente pronti. Non manca niente. L’ultimo controllo durante le operazioni al checkin. GS tira fuori dalla sacca un elenco in doppia copia, non si sa mai. Lui legge io spunto. AlC familiarizza con il personale in divisa, dice che ci farà uno studio sociologico più tardi. Divise e potere. GS indifferente alle necessità culturali di AlC inizia con voce semisoffocata dal sigaro spento che tiene in bocca da ore: «Scatoloni b.1 e b.2… / già partiti (segno con la penna verde) / relative bolle? / ci stanno (altro segnaccio con la penna verde nell’apposita casella) / finto ghiaccio? / nella b.2, nella b.2. non ci distraiamo / adesivi? canne? / sta un po’ zitto, che così fraintendono… devi dire “sostegni in legno per etichette del prezzo”… (segno verde) / va be’… radiosveglia? due confezioni di schnaps? bilancia? pasta lavamani a secco… bolle, copie di bolle già spedite, bolle in bianco da compilare all’occorrenza? / ci stanno […] / stuzzicadenti? / cazzo, gli stuzzicadenti!».


 

Bontà sua (2008, rospe)

Mi sento responsabilizzato al massimo. Dopo tutto tra poche ore montiamo la nostra baracca e devo attaccare a fare… lo standista. C’ho pensato bene, non si tratta di una cosa da poco. Per essere convincenti si deve prima avere lavorato su sé stessi. E io c’ho lavorato. Sono uno standista da fiera. Ho metabolizzato tutta la cerebralità del nostro concept. Ho anche fatto una specie di autoanalisi tipo esame per aspiranti extossici al giorno dell’esame per il reinserimento nella società civile: «che cosa hai imparato dalla tua prima esperienza? Dal punto di vista commerciale, cosa hai sbagliato in passato? In cosa pensi di essere migliorato e in cosa di poter migliorare ancora?». Lo so, mi sono preparato: sono uno standista.


 

Con tutta la coda (2008, rospe)

Prima di partire sul serio abbiamo modo di assistere a una specie di esercitazione anti-attacco batteriologico. Tre carabinieri (?) circondano gentilmente, ma in modo risoluto, GS. Non c’è stato niente da fare, il metaldetector fa beep. Passano lui e il suo bagaglio a mano attraverso una macchina che sentenzia: “potenziale pericolo radiazioni”. Io e AlC facciamo capire che non c’entriamo niente. Restiamo nei paraggi, inutile dire che è una scena che si ripete. Dopo una serie di operazioni tutto sommato abbastanza goffe il problema viene risolto. Un gendarme con tutta la sua psicologia da gendarme, trova un cacciavite di quelli per le astine degli occhiali che s’era infrattato nel fondo di una cucitura della sacca di GS. Che bello! L’ha finalmente ritrovato… neanche sperava di poterlo rivedere più. È solo un attimo. Soddisfatto il gendarme inserisce l’arnese “probabilmente radiottivo” nell’apposito cassone e sciorina anche la filosofia del gendarme: «la macchina, non sbaglia mai, anche se non c’azzecca… qualcosa si trova sempre». Guardo AlC, sta prendendo appunti. Un altro capitolo del suo prossimo studio. Comunque ci restituiscono GS. Si prende il volo.

A Roma… c’è Roma, avete presente? Provate una volta di queste. Stiamo dalle parti della Piramide Cestia, a due passi dalla metro. Linea B. Mi guardo intorno: un sacco di gente, un sacco di gente che va a lavoro. GS e AlC parlano o tacciono di cose editoriali, fanno o non-fanno gli intellettuali, io invece no. Io sono uno standista. Basta una distrazione minima ed esci fuori ruolo e vanno a puttane ore di autocoscienza e di immedesimazione. Devo tenere duro, niente distrazioni, sono uno standista da fiera. La testa vuota, quasi in trance. Mi guardo intorno senza muovere un muscolo. Sulla metro ci sono quelli che stanno lì perché sembra che ci si trovino bene e gli altri: quelli che lavorano. Io sono un professionista del lavoro. Io sto andando a lavoro. Guardo questi semi-pendolari e mi sembra di meritare il loro rispetto: io sono venuto qui a fare il mio lavoro e per farlo ho dovuto attraversare mezza Italia su un cazzo di aereo Alitalia, che magari a causa di un qualche sciopero incrociato neanche aveva carburante a sufficienza… Ho appena il tempo di darmi un tono che mi accorgo che questi qui manco mi cagano: quelli che lavorano, su sto trenino, vengono come minimo dalle Ande… a dorso di lama. «EUR». Mi sento una merda. È stato bello, magari ci si rivede quando stacco. Tra lavoratori, tra professionisti del lavoro, non si fanno troppe confidenze. «Resta nella parte, resta nella parte», mi ripeto.


 

Ilaria e la contrattazione (2008, rospe)
 

La psicologia dello standista è caratterizzata da una specie di intermittenza: si passa dal sorridere quando passa una persona che ti guarda e tira diritto, al mandare maledizioni ai vicini di stand che non sono neanche antipatici (ma serve a delimitare il territorio). Io sono uno standista e lo stand P18 è il mio universo, fuori c’è solo ombra, solitudine e una miriade di persone che non si vogliono fermare a farti fare il tuo stramaledetto lavoro. Cacchio è dura non far confusione, così a volte capita che ti metti a ringhiare con il povero malcapitato che ti chiede che ore sono, dov’è il bagno, perché sete vestiti da pescivendoli ecc. Qualcuno ha anche il coraggio di chiederti se la vostra edizione della Settima lettera di Platone ha il testo greco. Eh, no, non si può! Anche questo no. Che poi mi vengono dubbi e mi metto anche a controllare… sì, effettivamente c’è anche il testo greco, ma non a fronte, perché secondo AlC sarebbe stato troppo ovvio, come dargli torto.

Pausa. Vado al gabinetto. Sottoscala, tipo addormentato al baretto incomprensibilmente nascosto (forse è clandestino) e cessi (puliti, per il momento). Adoro i cessi del sottoscala, qui al Palazzo dei Congressi. Mi piace la luce al neon, né troppo bassa, né accecante. Mi piacciono i volti che si incontrano… tutti vagamente sorpresi di venire colti nel gesto apotropaico di sgrullarsi (non so cosa facciano esattamente nel vicino bagno delle signore: alla prima occasione, chiedere). Siamo tutti uguali davanti al bisogno: editori punkabestia, raffinati esteti con foulard di seta fasciacollo, giornalisti che hanno già scritto il pezzo una settimana prima, genitori con bambinetti moccicosi, passanti, tutori dell’ordine, camerieri e standisti avversari. Siamo tutti imboscati, almeno per cinque minuti. Si abbassano le difese… ma data la situazione, dopo tutto, si resta guardinghi. Primo box entrando: faccio centro.


 

Trilobiti e granchi, ovvero Francesca, Claudia e Gianfranco (2008, rospe)


Mi reinsedio, e do il cambio a GS che deve assolutamente incontrare… Lo standista ha una visione del mondo parziale: non gliene frega niente dei vicini (anzi un po’ li odia), si disinteressa del lavoro dei colleghi (l’importante è presidiare il proprio spazio lavorativo), non ha pietà né rispetto per i libri che se ne stanno abbandonati in pile. Lo standista ha un unico obiettivo: la prossima pausa.

Passano a trovarci una caterva di persone, ci chiedono del Nobel a Le Clézio, di che succede in Sicilia, se abbiamo trovato parcheggio davanti all’ingresso ecc. Fingono di non capire: non posso dargli retta, c’ho l’obiettivo incrollabile, restare nella parte fino a quando non smonterò un’altra volta. Qualcuno è più insistente, qualcuno vuole comprare un libro, provo a dissuaderlo, non riesco sempre nell’intento. Soprattutto non voglio dare il resto. È più forte di me, non voglio dare il resto e svelare al mondo il mio oscuro segreto: non so la matematica. Intendo, globalmente, nella sua interezza. Sono un puro, sono rimasto alla storia delle torte divise in fette (sì, ma chi controlla se le fette sono tutte uguali?).

Accadono anche una serie di cose del tipo, riunione volante (al baretto semiclandestino del sottoscala) con il mio promotore e il suo staff. [costaterò più tardi che mi stanno truffando e che si sono messi d’accordo con il finto barista | dal momento che siamo ancora in causa non vado oltre] La RAI ci viene a intervistare, GS impalato davanti ai riflettori suda come un cero pasquale, io rido e commento ad alta voce (in seguito mi renderò conto di essere una specie di bastardo nato). POi passano altri amici editori e io ne approfitto per scroccare sigarette e parlare male di altri amici editori, al solo scopo di rimanere nella parte, ovviamente.

I giorni si susseguono al ritmo della ritirata. Tutto lo strepito delle folle, le sgomitate in metrò, i sorrisi sprecati, le ragazze troppo belle per fermarsi al nostro stand, i maniaci della copia perfetta che dopo aver spulciato tutti libri sul tavolo scelgono il primo che gli capita sotto mano (nello stand del vicino), tutto finisce per trovare quiescenza nel gorgo dello sciacquone. Sempre lo stesso cesso, sempre il primo entrando a destra. Poi tutti a guardarsi in cagnesco con la patta semiaperta. Ormai ci consociamo a sufficienza per avere perso ogni forma di imbarazzo panico: che c’hai da guardare? È così per tutti, anche gli editori raffinati, i marmocchietti moccicosi, i finti passanti-per-caso, ribadiscono la più maschia delle dichiarazioni di virilità: su la lampo spavaldamente e poi tira su col nasco minacciando chissà quale triviale nefandezza. Provo anch’io, che bella soddisfazione. Sono perfettamente nello spirito. Grazie mamma perché mi hai dato la possibilità di provare queste emozioni.

La fiera finisce prima di aver potuto sperimentare anche l’ultima prova del fuoco per lo standista: il cazziatone pubblico da parte del kapò. Sarà per la prossima volta.


 

Il Ceccato e il Severino (2008, rospe)


ps. forse avrei dovuto anche accennare ai libri – quelli degli altri – ma troppo occupato ad esercitare le mie prerogative professionali, non c’ho proprio avuto il tempo di guardarmi intorno. Non è del tutto vero e allora rapida carrellata di quello che ricorderò: Deriveapprodi, troppo forti; Antonella della Casalini, troppo forte; le XL troppo forti (anche Francesco non è malaccio, nonostante sia architetto); Alex di Castelvecchi, troppo forte; Anna Voltaggio di Ancora del Mediterraneo, troppo forte; Orecchioacerbo, troppo forte (ma lei troppo strana!); i Iacobelli, troppi e troppo forti (però sono di parte perché li adoro tutti); Edizioni Alegre, bel coraggio a scegliere un nome così (data l’atmosfera glaciale); Mattioli 1885, libri meravigliosi; Adriana di Azimut, troppo forte; Enrica (la mi’ cuginetta) di Minimum fax, troppo forte (diventa più famosa che puoi così approfitto della tua popolarità); stand Sellerio, non pervenuti (veri standisti duri e puri, non sapevano neanche di dove fosse la casa editrice); stand Newton Compton… dove sono andati a finire i libri a millelire?; Toilet, troppo forti (e poi in un racconto animato dal “bisogno” non potevano essere omessi); gli amici di StampaAlternativa, sempre un onore incontrarli; Gianni Severino, troppo forte; Francesca G. di Trilobiti, troppo grande; il Ceccato, troppo; Gianfranco Franchelot, troppo forte.
Concludo dicendo che ho dimenticato qualcuno (scusate) e di quelli di cui non avrei potuto parlare né bene, né tiepido, preferisco tacere. Eccezione: [il mio promotore d’allora: pezzo da galera!]


 

evidentemente: crash (2008, rospe)