È morto. “So it goes”, è così che va (rif. da Mattatoio n. 5). L’ho saputo solo oggi, me l’ha scritto un amico romano, uno con cui spesso s’era parlato di quanto avesse significato per tutt’e due Vonnegut. Adesso dico una sciocchezza. A me ha insegnato a scrivere, ovvero, ho capito perché val la pena scrivere leggendo i suoi romanzi. Forse raccontare per me è stata una specie di reazione a Ghiaccio nove. Questa è proprio una sciocchezza.

La città brucia i suoi rifiuti (rospe, Zona Espansione Nord 2001)


Era il natale del 1995 quando mi sono imbattuto in uno strano libro, decisamente poco attraente, che riportava un titolo che già dopo pochi secondi aveva cominciato a risuonarmi nella testa, come il ritornello di una canzone di cui non riesci più a liberarti: Catastrofi di universale follia.

È inutile, non fa parte della sua bibliografia ufficiale, l’ho scoperto solo dopo. Si tratta di una raccolta di tre capolavori assoluti di Kurt Vonnegut jr. (Piano meccanico, Ghiaccio nove e Mattatoio n. 5), romanzi che una volta accostati insieme possono prendere il posto di una biblioteca intera. Dopo averli letti viene voglia di uscire di casa, di guardare il mondo, non certo di stare ad ammuffire tra i libri. A proposito: nella principale biblioteca pubblica di Palermo, non c’era ombra di un suo volume fino alla seconda metà degli anni Novanta (a dire il vero non ho più controllato). L’ho già detto? Il libro era orribile, si presentava come un mattone (13,5×23,5×4 cm), la copertina era a dir poco raccapricciante (su tutto spiccava il disegno di una maglietta con sopra il numero 5). Era un pomeriggio di vacanza, avevo un appuntamento e di lì a poco sarei finito, “deportato”, a Terrasini, con i parenti, panettone e tutto il resto. Avete mai sentito l’espressione: «come Terrasini d’inverno»?


Padiglione n. 5, Lingotto (rospe, 2005)


Il mio amico romano di prima ha appena pubblicato il suo ultimo romanzo (Actarus. La vera storia di un pilota di robot). Esattamente giorno 12 aprile ho iniziato a leggere il suo libro: una storia di fantascienza, come quelle che scrive di continuo Kilgore Trout, il barbone-scrittore-utopista, che attraversa come un doppelgänger i racconti di Vonnegut (uno per tutti Cronosisma). Leggo le prime pagine e penso: cacchio! è come Kurt. La fantascienza non c’entra, siamo noi in questa terra di mezzo, sospesa tra realtà e irrealtà. Claudio (l’amico è Claudio Morici) ha messo a fuoco uno dei pensieri più nebulosi con cui mi sia accapigliato negli ultimi anni. La nostra è una progressiva de-realizzazione. Siamo noi bambini-ormai-sui-trenta-quaranta, impiegati, webdesigner, architetti di interni, account, fancazzari, mammoni, disadattati con il cellulare ultrapiatto. Davanti alla tv viviamo una vita a puntate, per episodi, dove l’happy end è rimandato all’infinito a causa del moltiplicarsi delle interruzioni pubblicitarie e per gli ovvi interessi della produzione. Anch’io spesso mi penso come un cartone animato, ma un cartone che ha perso la sua aura, la sua ingenuità.
Volevo dire tutte queste cose a Claudio. Volevo dirgli che trovavo coraggiosa la sua scelta di scrivere un romanzo serio, che dice cose serie, nella maniera più divertente e leggera possibile. Volevo dirgli che è m’era venuto di pensare a Ghiaccio nove, a Mattatoio n. 5, anche un po’ a Palahaniuk di Soffocare. Era giorno 13 quando ho beccato in chat Claudio.
«Ma lo sai che è morto Vonnegut?»

Che c’entra un mio ricordo del tutto personale con Kurt Vonnegut jr.? Con la sua morte poi? Non saprei, ma provo la nausea al solo pensiero di cadere nella tentazione di un “coccodrillo” per lo scrittore che è stata la mia anomalia sicura, la mia caffeina, il mio punto fermo, la mia boccata d’ossigeno quando per il resto era tutto un andare in apnea. Preferisco ricordare della assoluta casualità di quell’incontro, piuttosto che della dipartita di mr. K.V. jr. So it goes. In fondo la cosa non mi tocca più di tanto. Le persone sono delle finestre sul mondo, si aprono per un breve lasso di tempo, proprio quanto basta per dare una sbirciata in giro, e poi si chiudono (questo lo dice lui, da qualche parte).

Quel pomeriggio – quello natalizio di tanti anni fa – ero in centro per un appuntamento, qualcosa che a mio avviso sarebbe stato decisivo. Come la mossa preparata a mente fredda per giorni e giorni dallo scacchista, che poi sul più bello si accorge di essersi scoperto troppo, di avere lasciato per strada i pezzi migliori, per un misero scacco alla regina (?). Era strano perché avevo atteso per mesi quell’occasione propizia. Era tutto diventato vagamente possibile. Lei, perché ovviamente era una lei la mia lunga attesa, dopo un interminabile serie di manovre di disimpegno degne di un pilota-nippo di caccia della seconda guerra mondiale, aveva per la prima volta lasciato uno spiraglio.

Tutto era vagamente possibile, e anch’io cominciavo a ritenere possibile prendere un caffè insieme, ma non come i precedenti, fare quattro chiacchiere, ma non come quelle su gradini di facoltà, non come quelle delle gite di lavoro con il gruppo urbanistica. Tutto era vagamente possibile, come scottarsi quando si gioca con la manopola dell’acqua calda sotto la doccia. In quel momento ho visto chiaramente un’alternativa. Stavo dirigendomi al baretto, sulla strada ho visto una libreria. Ho pensato, mi brucio i quindici minuti di anticipo, magari è meglio così. Ma a dire il vero non ho propriamente pensato: ho reagito e basta. Paura di un rifiuto o di mettere a rischio l’ennesimo rapporto con la persona giusta ma sbagliata? Ero già dentro. Sfoglio i libri nella cesta delle occasioni: sono vecchiotti e si ripete il nome di Luca Goldoni. Se li avessi acquistati a un decimo del prezzo adesso avrei casa piena. La libreria è sorprendentemente grande, anche perché si dilata nel momento in cui comincio a spulciare ogni volume, anche le seconde copie, tutto. Tutto, ma proprio tutto. Adesso sono al reparto manuali di ragioneria, poco prima ho controllato gli indici di una silloge di testi di diritto internazionale. Perché? Perché si ha paura di fare le cose, perché si rimanda? Per non soffrire, per non rischiare? Forse si tratta della persona sbagliata – è una tale rompicoglioni –, forse so già come va a finire. Forse sono io che non sono adatto. A questo punto la vedo. Attraversa lo spazio di luce confusa che inquadra la vetrina della libreria, passa oltre, va all’appuntamento. Non mi ha visto. Mi giro e trovo questo libro. Catastrofi di universale follia.


Amore in vetrina (rospe, 2001)


Be’, ovviamente mi domando ancora se abbai fatto bene oppure se sia stato un perfetto imbecille. Non è che la cosa sia tanto chiara. C’ho guadagnato un libro, che a vederlo è orribile e sembra un mattone. Ci si becca Kurt. So it goes.