In realtà quando penso all’Aleph mi vengono in mente una serie di nozioni sgangherate: è la prima lettera dell’alfabeto ebraico… forse; ha a che fare con un omunculus di fango chiamato Golem… mi pare; è una sfera (una specie di buco nero al rallentatore in cui si trova tutto) collocata nel sottoscala di un racconto di Borges (L’Aleph, appunto). Era una libreria con al centro il suo libraio e intorno un’infinità di ellissi vorticanti di libri di ogni età, forma e carattere.


Dopo aver letto L’Aleph di Borges – molti anni fa – ho capito qualcosa di più sulla memoria: è materia delicata esposta all’oblio, forse programmaticamente, a cui si oppone un fenomeno particolare di corruzione e mutazione che prende il nome di “deformazione”, e forse anche questo è il risultato di un logorio inevitabile. Prima che l’oblio abbia la meglio una finzione si affianca alla realtà, le si sovrappone, la invade e poi la rende superflua.


 

Finisco sempre con lo scrivere di gente che se n’è andata. E se Borges non mentiva, probabilmente è finita dentro quella sfera a vorticare senza senso, come il tutto che ci circonda e di cui non riusciamo a cogliere l’essenza e neanche la presenza, talvolta.

Mi auguro che con la morte del signor Lorenzo Giordano, il libraio dell’Aleph di Palermo, non finisca anche la storia di questa libreria indipendente e autarchica: vedremo. Intanto però credo che sia inevitabile soffermarsi per un attimo sul tema della morte delle librerie. Soprattutto in questo momento, soprattutto in Italia, soprattutto a Palermo, soprattutto quando si parla di librerie vere (e con questo non voglio dire che le altre librerie non siano librerie, sono soltanto pessimi supermercati di catena e loro infimi surrogati senza librai, per cui non varrebbe mai la pena di spendere parole, né ricordi). Feltrelli, Mondarelli, Gnac ecc. sono quello che sono, e peggio ancora, sono quello che sembrano.


 

Quando chiude una libreria indipendente, perché la ditta è fallita, il progetto non ha retto ai conti da pagare, i libri costano troppo, i lettori si sono dileguati, il margine di profitto (sotto zero) s’è portato via il sogno, i distributori ti strozzano, la concorrenza è troppo forte ecc… è molto triste, ma c’è anche di che indignarsi, di che ragionare sulle cause economiche e sociali di un fallimento (che in Italia è soprattutto un fallimento etico). Molto spesso si sente parlare anche di acquisizioni e di franchising, e in questo caso la libreria non chiude, ma da indipendente diventa surrogato, surrogato di quella fabbrica acefala che produce librerie in serie e che pian piano spegne qualsiasi entusiasmo. Queste librerie resistono per un altro po’, credono di rallentare l’estinzione, ma non rallentano l’indebitamento. Si svuotano come gusci e mettono una nuova pelle, ma la mutazione è profonda, le logiche cambiano e in un batter d’occhio non ci sono più. E alcune di queste librerie ex-indipendenti scompaiono ugualmente come le altre che sono rimaste fedeli a un sogno (e magari era illusorio), e non lasciano niente dietro, solo un cartello, “affittasi”, su una vetrina.


 


 

Ma le librerie che resistono, che oltre al sogno hanno anche realizzato una vera anomalia intelligente, capaci di resistere al diluvio, che si impegnano nella pratica della diversità e dell’autonomia (si può parlare di bibliodiversità per alcune e per altre di intuito commerciale), anche per queste può venire il momento della fine. Le librerie indipendenti hanno dietro sempre delle persone, i librai, che sono strani commercianti-imprenditori, che spesso si sono fatti delle idee personali di come vivere la propria vita, di cosa fare della loro bottega, delle proprie competenze di venditori e di lettori. Alcuni hanno deciso di fare delle scelte antieconomiche, altri politiche, altri semplicemente hanno costruito un loro rifugio segreto in piena vista. Sono persone che vivono delle loro idee (e alcune sono opinabili), ma sono persone e a volte muoiono senza eredi, senza che nessuno sia in grado di ereditare il loro genio, la loro follia, le loro sfide. È triste, ma è naturale. È anche la loro fine un regalo prezioso per chi ha amato i loro giardini segreti, per chi ne ha condiviso gli scaffali, per chi ha costruito le proprie letture anche grazie a suggerimenti occasionali piovuti da dietro un bancone assortito in modo unico e irripetibile.




Delle librerie indipendenti, quando il libraio se n’è andato, resta la memoria. E non bisogna dimenticare, non bisogna che l’oblio sia una scusa per cambiare abitudini, per perderle del tutto, per finire con il comprare – che vuol dire scegliere – al supermercato del libro. Bisogna imparare a investire ancora sulle persone, sui librai, sulle idee. E di librerie indipendenti ne nascono (nonostante il bollettino di guerra segni solo i decessi). Essere esigenti, critici, presenti con un libraio indipendente vuol dire essere parte della storia di una fondazione, quella di un nuovo giardino (che potrebbe essere il vostro o un’eredità importante per qualcun altro). Soprattutto, questo vuol dire essere vicini al contare qualcosa, dare valore alle proprie scelte. Anche questa è economia, anche così si può invertire la corrente, fare politica attiva. È inutile aspettarsi una ricompensa per qualcosa che si sa essere giusto (anche se scomodo), il piccolo gesto individuale del singolo lettore non salverà la libreria al collasso, eppure è semplicemente la scelta più giusta (soprattutto economicamente, in quanto sostiene sistemi solidali con ricadute immediate in microsettori vitalissimi, se non schiacciati dalla concorrenza di pachidermiche scatole cinesi… vuote).


 


I librai muoiono perché sono persone, le librerie chiudono quando si esaurisce un percorso, ma sono i lettori a dimenticare.

«Esiste questo Aleph all’interno di una pietra? L’ho visto quando vidi tutte le cose, e l’ho dimenticato? La nostra mente è porosa all’oblio; io stesso sto deformando e perdendo, sotto la tragica erosione degli anni, i tratti di Beatriz».

• J.L. Borges, L’Aleph, in L’Aleph, trad. it. di F. Tentori Montalto, Adelphi, Milano 2006.