Per prima cosa Jacques Vaché. Questo disertore integrale, con l’irruenza di un colpo di pistola sparato dalla platea verso l’autore sul palco (v. Apollinaire), s’è fatto strada tra le pagine – centinaia di pagine – che finivano con il girare vorticosamente nelle letture di :duepunti quando era un cenacolo di tre/quattro ragazzi che fotocopiavano le loro liste improbabili, spillavano tutto e poi scrivevano una parola accanto a “:duepunti”. Era una delle proposte di GS. Nessuno si è mai chiesto cosa glielo avesse suggerito. Nessuno ha mai dovuto giustificare troppo accuratamente la natura dei propri contributi. Io ad esempio continuo ancora oggi a provare molta curiosità nei confronti degli altri due: ma per paura di ricevere risposte non faccio domande. Vaché, disertore integrale, anzi “definitivo”, non spiegava mai il senso della sua protesta, era Dada prima di Dada, ha fatto intravedere la strada a Breton, ma come ultima provocazione è morto poco più che ventenne, completamente irrisolto e inspiegabile, più che incompreso. Anni dopo il suo nome ha fatto nuovamente capolino nella lista di ipotetici libri che avremmo potuto pubblicare. Nel frattempo avevamo deciso di aggiungere una nuova parola accanto a “:duepunti”: Edizioni.


Il mio scrittoio (rospe, 2007)

• Il mio scrittoio (rospe, 2007)


A questo punto incontriamo per la prima volta Marco Dotti, giornalista. Abbiamo appena licenziato il nostro secondo libro (J. Vaché, Lettere di guerra, 2005) e scopriamo che il nostro lavoro non è passato inosservato. A qualcuno è persino piaciuto. Marco Dotti è la firma accanto a un articolo strabordante apparso su «il Manifesto» (Esercizi di surrealtà, 05/06/2005). Incuriositi cominciamo a cercare di capire chi sia esattamente Dotti. Le notizie sono troppe, una mole sterminata di interessi, che lo portano a incrociare i destini di trequarti dei nomi che scorrono a rivoli per tutto il Novecento. Certo, ricorre uno in particolare: Antonin Artaud. Ma è poco. Chi Marco Dotti? Leggiamo i suoi articoli: deve essere un caffeinomane. Di gente che scrive di tutto e con competenza ne conosco parecchia, ma Dotti mette anche passione e non dimostra nessuna di quelle “cautele” ruffiane che… diciamolo: fanno la firma importante. Eppure, Dotti è importante a suo modo. A testa bassa scrive e cuce da anni un racconto (spesso francofono) in cui più della trama sono importanti i nodi. Se inizi a seguirlo ti accorgi che niente sfugge al suo strepitoso fiuto. Deve essere un caffeinomane.


Marco Dotti (rospe, 2007)
• Marco Dotti (rospe, 2007)

Poi capita che becchiamo la sua mail, ma forse è lui che ci scrive. La prima lettera che :duepunti inoltra all’indirizzo elettronico di Dotti è di GS, non poteva essere altrimenti. GS forse tenta di parlare di Vaché, ma con la sua solita reticenza, quella che io chiamo pudore, e altri ritengono calcolata modestia. Ovviamente non si tratta né dell’una né dell’altra… è una fisima tutta sua. Ma, sorpresa: Marco (che da subito diventa Marco) è un’esplosione, una deflagrazione, un’esondazione. Nell’arco di pochi giorni una semplice letterina di ringraziamento si trasforma nell’acchito di una, irregolare, frastagliatissima e vitale, corrispondenza. Tutti siamo proiettati in questa nuova cosa. Le lettere si moltiplicano di ora in ora, è quasi come chattare in tempo reale, una partita a scacchi. E partecipiamo tutti. La mattina si entra in ufficio e si chiede a GS: come va, a che punto siamo… chi vince? E poi diventa un’abitudine rileggere le sue lettere a distanza di giorni e mesi. Sono delle liste raffinatissime di possibilità, inviti e sfide. Sono liste mentali che mi riportano ai tempi in cui :duepunti era un fascio di fotocopie, collage e qualche bruciatura di sigaretta messe insieme, spillate e… Marco è sicuramente un caffeinomane.

Poi un giorno ce lo troviamo davanti. Siamo a Torino, al Lingotto, per il bazar annuale. Lui è… giovanissimo, quasi un gigantesco fanciullo dall’aria seria ma dal sorriso che ti conquista subito. L’interpretazione della “prima impressione” è un’arte più che una scienza esatta, spesso più si è raffinati nel praticarla, più grandi sono le cantonate. Ma Marco è disarmante. La sua energia insolita si disperde con eguale rapidità in direzioni imprevedibili. È un amabile conversatore, ma a volte è impossibile stargli a presso, perché hai appena il tempo di intuire dove ti sta conducendo che sei nuovamente proiettato in una nuova direzione. Un po’ va per i fatti suoi, ma non ti lascia mai. È come un fanciullo voracissimo di attenzione, che cerca compagni di gioco. Anche quando ti sembra di averlo perso, lui è lì. È un caffeinomane… ma non ne sono più del tutto certo. Più tardi lo rincontriamo in veste diversa: presenta un libro di cui ha curato l’edizione. Ovviamente si tratta di Artaud. Mi sono dimenticato di dirlo: Marco, non è un giornalista, ovvero, non è mai una sola cosa per volta, è traduttore, critico, sarto (perché la sua arte è cucire dove ha prima effettuato degli strappi), memoria disorganica, dinamo a moto perpetuo, lettore, ascoltatore non meno caparbio di quanto non lo sia come oratore. E poi è giovanissimo. Ma non si tratta di un dato anagrafico, è una stato costitutivo della sua persona. Abbiamo quasi la stessa età, ma io mi sento da sempre vecchissimo.

La “prima impressione” non serve se non c’è la riprova. E questo accade poco più tardi e in modo non programmato. Un giorno mi accorgo che al termine di ogni riunione del giovedì (le nostre riunioni editoriali) nella tipica lista dei libri che “si potrebbero”, ricorre un nome: Joris-Karl Huysmans. Sono sempre io a riproporlo. Evidentemente lo faccio senza troppa convinzione, sto semplicemente ripercorrendo l’inconsapevole filo che lega le mie letture private alla mia vita in casa editrice. A dire il vero si tratta del filo francese: prima c’è Rimbaud, poi vengono Flaubert e Maupassant, quindi Marcel Schwob (a cui dedico non meno di un sospiro al giorno), e poi… ce ne sono ancora tanti altri, Villon, Rabelais, Vian e Jarry. Ma sulla lista resta sempre il nome di Huysmans, a mio avviso uno dei classici più sottovalutati e meno letti del Novecento (ovviamente da noi italiani). Ma evidentemente non sono troppo convinto, dato che quando gli altri due dicono “bene allora si fa”, io cado dalle nuvole. Si fa? Ma come? E a questo punto abbiamo una risposta sola: chiediamo a Marco.


Alla deriva, scorrendo la copertina (ALC, 2006)

Alla deriva, scorrendo la copertina (ALC, 2006)


Così scopriamo che Marco proprio in quello stesso periodo sta lavorando ad un progetto sulla luce e l’oscurità attraverso l’inferno dei diari parigini di Strindberg, in cui Huysmans è costantemente presente come ispirazione. Accetta. Traduce per noi Alla deriva, e entra a pieno titolo nella famiglia di :duepunti, portando in dote lo sconclusionato impiegatuccio Folantin, fratello maggiore di Des Esseintes. Il lavoro della nuova traduzione è esaltante, soprattutto per me che forse prima degli altri due ho avuto modo di apprezzare come Marco abbia saputo a pieno restituire l’ironia polverosa e felicemente crudele della scrittura di JKH. Il disfacimento, la disgregazione, la rinuncia, sono orchestrate dalla sensibilità di un ciarlatano-mago eccezionale (“ciarlatano” si è definito lui stesso, precisando che è questa è la condizione del traduttore, “mago” lo dico io pensando alla figura dell’apprendista stregone).


Con Dotti a Catania + uomo con pipa (rospe, 2007)
• Con Dotti a Catania + uomo con pipa (rospe, 2007)


Parlerò ancora di Marco, perché proprio in occasione della presentazione del volume, è venuto a farci visita in Sicilia, portando scompiglio e offrendoci a piene mani argomenti di discussione tanto da seppellirci tutti. Grazie Marco, perché oltre ad essere un “ciarlatano” fantastico sei rimasto il fanciullo più curioso che conosca.