Divertente, avere gente per casa, intendo in casa editrice. A volte mica tanto. A volte la gente che ci troviamo per casa si aspetta qualcosa da noi. Mica lo so con esattezza cosa si aspettano da noi gli stagisti. Forse è perché io non lo sono mai stato. Forse è perché tutti i ragazzi che ho incontrato ai vari corsi di editoria, scuole di scrittura, fiere, incontri con l’autore ecc. avevano le idee confuse, molte speranze e pochi obiettivi concreti. Tutti volevano spiccare il volo. Volevano fare qualcosa con i libri. Ne ho intervistati parecchi, con la solita scusa, in maniera un po’ sadica cercavo di spingerli a dire con parole loro cosa si aspettavano sul serio. «Ma tu? Esattamente lo sai che farai da grande?». E magari erano già laureati e dottorati, o masterizzati in qualcosa tipo Nuove discipline dell’ipertesto et siml. Ma mica rispondevano come mi sarei aspettato. Allora ho deciso che era meglio fare domande standard, dare consigli standard, stare ad aspettare. Prima o poi qualcuno mi sorprenderà, che so, rispondendomi: voglio fare il redattore per sostituire qualche sì con un bel no.È appena scaduto il tempo massimo. Mi avvicino per controllare se la stagista n. 1 ha concluso la lettura del libro. È appena scaduto il tempo massimo. Lo stesso giorno in cui si è presentata le abbiamo detto: «ecco, questo manoscritto non lo pubblicheremo mai, non sappiamo neanche di che cosa parla… noi non trattiamo questi argomenti, ma tanto vale che tu faccia esperienza. Leggilo e prova a redigere una scheda di valutazione. Non importa quello che scrivi, serve solo a vedere come lavori… in seguito verranno cose più interessanti». È appena scaduto il tempo massimo. Non ha finito la lettura, ormai è da più di un mese che si presenta tutte le mattine, sempre più in ritardo, sempre meno truccata, sempre più trasparente, silenziosa. Il manoscritto è sempre là, niente da dire… proprio niente da dire. Eppure quasi ogni giorno la fermo sulle scale prima che scompaia per apparire il giorno dopo e le dico: «tutto bene? Non è che vuoi cambiare? Magari facciamo qualcos’altro? Ecco: perché non me lo dici tu che cosa vorresti fare». Sorride. E io ci resto male, ci sto male anche adesso a pensarci.


ramazze e ramanzine, stagisti: siate umili (rospe, 2003)


Per lo più le persone che si sono presentate con il loro curriculum “compilato fantasia” non si erano neanche preoccupate di leggersi il nostro, di dare un’occhiata ai nostri libri, sfogliare il nostro cataloghetto. Ma che passa per la testa a tutti questi aspiranti? E pensare che i libri sono pieni di domande, di curiosità, di mondi dove le cose funzionano con una loro logica. Ho come l’impressione che molti di questi aspiranti frequentino poco i libri. Certo hanno studiato qualcosa, ma non sanno perché. Invece da noi le cose sono sempre andate in maniera diversa. Noi abbiamo sempre fatto tutto senza sapere a cosa potesse servire, ma anche senza aspettative, per la gioia di provare, di combinare insieme divieti e ovvietà. Presi singolarmente siamo una strana accozzaglia di divieti e ovvietà inconciliabili, ma chissà perché insieme la cosa sembra poter funzionare. Chissà che ne sarebbe stato di noi se fossimo finiti a fare gli stagisti da qualche parte.

AC è l’unico di noi ad aver fatto uno stage. Ci mancherebbe: lui l’ha fatto in Francia, e dopo un paio di giorni ha smesso di fare fotocopie e s’è messo a curare l’edizione scientifica di Vattel’a pesca. Non so che dire. Se un giorno si presentasse uno così da noi… penso che farei di tutto per scoraggiarlo. Magari potrebbe trovare di meglio, magari potrebbe andare in Francia pure quest’altro. Magari si potrebbe aprire una casa editrice da solo. Soprattutto, magari potrebbe evitare di venire a rompere le palle proprio a noi. Lo confesso: mi sentirei minacciato da un nostro clone, è troppo presto per l’assalto degli ultracorpi. Ma tanto lo so, non mi comporterei così male, prenderei a cuore l’aspirante e finirei con il raccontargli il resto della storia, che lui ancora non conosce, ma che lo riguarda direttamente. Credo che gli direi di andare a Milano o a Roma, di puntare in alto e non rischiare sulla propria pelle, se non ha già deciso da tempo che gli sta bene anche correre il rischio di perdere tutto.


tasti e topi su letto di alici (rospe, 2006)


E così a un certo punto ci siamo ritrovati un mestiere: eravamo diventati editori. Eravamo disposti a perdere tutto. Ma nessuno pensava che fosse proprio un lavoro. Certo, di per sé non basta essere tre ragazzi immaginari per diventare editori, questo lo sapevamo anche noi. Eppure eravamo disposti a perdere tutto, forse anche perché in parte non avevamo già più niente da perdere. Si può dire che il nostro lento apprendistato sia coinciso con il quasi totale fallimento delle nostre aspirazioni professionali, con la vita che ci eravamo immaginati. La vita che stavamo costruendo e che un bel momento s’è inceppata. A questo punto: perché no? Allora da oggi il nostro diventa un mestiere. Un apprendistato continuo, fatto gomito a gomito, facendo tesoro dell’esperienza comune, in piena sintonia… non esattamente. Chiusi a riccio nelle nostre abitudini abbiamo lottato contro ogni evidenza, incapaci di imparare se non dai nostri sbagli, dai nostri litigi, dai nostri silenzi.

Questa tocca a GS. Così suona strano, equivoco quanto meno: a turno ci capita di svolgere le mansioni di tutor/kapò per gli stagisti. Così almeno la povera malcapitata riceve soltanto un tipo di sollecitazioni, ovviamente insensate e dispersive, ma almeno costanti. Così le cose vanno meglio. Per gli altri soprattutto è meglio che non tocchi a me fare da supervisore, dicono che socializzo troppo. Dicono che sto tutto il tempo a fare pistolotti tipo vecchietto ai giardinetti. Fare il pensionato arteriosclerotico mi si addice, lo devo ammettere. Eppure, anche così, con il “metodo”, non riesco ad evitare di spiare la stagista n. 2. Questa è ordinata, silenziosa, efficace, imperscrutabile. L’aspetto al varco: prima o poi avrà una giornata storta, o almeno così così. Prima o poi potrò beccarla in pausa caffè e farle la solita domanda: «ma tu, esattamente che cosa ti aspetti da questa esperienza?». Passa l’intero mesetto e quel momento non arriva mai. Alla fine capisco che la sua risposta mi avrebbe colto impreparato. Questa qui lo sa davvero cosa vuole fare. E se mi avesse girato la domanda? Mi avrebbe riso in faccia.


libri rammendati con pazienza (rospe, 2007)


Magari anche per me non è troppo tardi. Chi lo sa? Magari è proprio da stagisti che si chiariscono certe cose su sé stessi. Magari è un rito di passaggio che mi manca. Magari è proprio per questo motivo che mi sento così tanto precario in questo ruolo, in questa parte del mondo, nella mia vita. Dovrei fare uno stage anch’io, e non per imparare il mestiere, ma solo per fare questa esperienza. Forse non è troppo tardi. Senza andare lontano, potrei ancora fare la prova. Basta buttare giù un altro “curriculum fantasia”, presentarmi alla porta del primo editore che mi capita a tiro, magari da quello che sta all’altro lato della strada, e provare a vedere se accetta l’ennesimo aspirante passatello. Chissà se riuscirei a combinare qualcosa. Qualcosa del tipo… che passa inosservato, mano dopo mano, fino alla stampa, e che proprio nessuno nota fino a quando un giorno si presenta in casa editrice un tipo con gli occhialetti calati sul naso e con un qualche evidente difetto di pronuncia, e dice: «qui c’è qualcosa che non va! Nel capitolo dieci del vostro libro il protagonista cambia nome, e le pagine cominciano ad apparire con la numerazione invertita. Ma che significa? Io non l’ho mica scritto così». Quella del sabotaggio è una mia fissazione.