Qualcosa di veramente inatteso. No, niente che non mi aspettassi da questa città, dalla sua gente, dalle sue abitudini. Dovrebbero essere anche le mie, ma allora perché continuo ad attendere una sorpresa? Forse aspetto una catastrofe e non mi capacito sul suo ritardo. Ma forse la fine di tutto è già adesso, la fine di tutto potrebbe non essere un evento isolato, ma la somma di tante piccole fratture, di incrinature quasi impercettibili. Ma queste sono idee di Hans Magnus Enzensberger (per chi si volesse prendere la briga di controllare: La fine del Titanic).
Al termine di una lunga partita a ping-pong totale (pratica frustrante che funesta i lunghi pomeriggi di :duepunti) un mio caro amico di cui non faccio il nome, mi ha raccontato qual è stato il momento più bello della sua lunga ed eroica campagna elettorale. Il momento in cui inaspettatamente s’è trovato a calpestare la sua faccia, schiaffata a tradimento su dei bugiardini elettoriali. M’ha detto: «in quel momento ho capito che cosa significava davvero essere un candidato». Lo capisco: a me è capitato qualcosa di simile quando mi sono ritrovato davanti alla prima locandina. Erano passati due anni, era riaffiorata quasi per caso da sotto innumerevoli stratificazioni abusive (molte elettorali suppongo). Aveva cambiato colori, era strappata, corrosa e mi sembrava… un’autentica schifezza.
Il giorno dopo le elezioni (in precedenza indicate come le “condominiali”) mi aggiro per le strade di questa città, che a quanto sembra non sono lastricate di cultura e buone intenzioni come la Vienna di Karl Kraus. Ringrazio i Pythons per avermi permesso di accorgermene.
«Credere alla mia malevolenza è un equivoco largamente diffuso. Che pregiudizio! Non sono mai contro nessuno al mondo e sono la benevolenza in persona, reagisco al chiasso che suscita, e non mi interessa la direzione da cui proviene. Se il contenuto delle mie glosse fosse la polemica, il solo credere di poter decimare la massa della gente piccola, mi porterebbe al manicomio. “Lei mi ha preso di recente come oggetto della Sua satira”, scrive uno, poi cancella “preso” e lo sostituisce con “scelto”. Ma io posso dire con la coscienza tranquilla che non ho mai preso una persona come oggetto della mia satira, o tantomeno l’ho scelta. Altrimenti non sarei un autore satirico e farei una scelta migliore. La satira non sceglie, non prende e non conosce nessun oggetto; nasce fuggendo dall’oggetto ed è l’oggetto a importunarla facendosi accettare per forza».