«Sì, la vita è azione. Sì, la vita dà molto da fare, e il maggior daffare è riuscire a fare ciò che dobbiamo fare».
José Ortega y Gasset*

La mia città, è fatta di librerie, di librerie e di librai. Certo, ci sono città in cui le librerie sono molto più numerose, più belle, più presenti, più impegnate, meglio frequentate ecc. Ma resta il fatto che la mia città è fatta di librerie (poche) e di librai (si prende quel che c’è). La loro presenza, e la loro assenza, sono dati caratteriali imprescindibili di questa città, che è “la mia” nel senso più solipsistico che si possa immaginare.

Colei che divana. Sapevo della sua esistenza, non chi fosse lei e cosa fosse quel posto. Era comunque una cosa nuova. In città di cose nuove che non si possono evitare – grazie al cielo – ne capitano poche. Ho evitato finché ho potuto. Nel frattempo continuava a diffondersi tra amici e conoscenti la fama di questa libreria fuori dal comune. Si trattava di una specie di club esclusivo, dove la padrona di casa metteva in scena tutti i pomeriggi una riedizione nostrale dei salotti letterari di proustiana memoria. Per il mio debutto ho atteso l’inevitabile mostra fotografica di un mio amico (ai tempi aspirante fotografo). Effettivamente tutto era come me l’ero aspettato. C’era persino una claque bell’e buona, ragazze sorridenti, ragazzi occhialuti, scrittori da un libro solo, lettori onnivori, specialisti di lingue slave, vecchie glorie e belle speranze. Ho sempre odiato le belle speranze e i loro occhioni luccicanti. Le foto erano appese. Io osservavo il resto, per lo più ispezionavo gli scaffali di legno intagliato. Forse a causa del vino troppo secco e dei salatini imbalsamati ho lasciato che la mia attenzione si spostasse dai lavori di ebanisteria ai libri. Accanto a quelli ovvi ce n’erano degli altri e poi degli altri ancora. Stavano insieme come solo gli ospiti di una biblioteca possono stare. Ho capito cosa fosse quella cosa nuova in città: non si trattava di una libreria, né di un ritrovo di aspiranti, quella era una biblioteca privata che si offriva civettando impertinente allo sguardo di un pubblico occasionale. Non sono diventato un habitué, ma che magnifica cosa fare dell’altro in libreria.


Civetta sul mio scrittoio (2004, rospe)


Mi guardo in giro sempre meno. Ogni tanto mi sveglio dal torpore e mi ritrovo ad annotare cambiamenti e devastazioni. La mia città ormai è davvero fatta quasi soltanto di ricordi, perché i posti a cui mi ero rabbiosamente abituato non esistono più. L’edicola dove compravo «L’Unità», soltanto per collezionare quei libretti di carta pessima che tuttora si deteriorano sui miei scaffali, non esiste più. Un giorno io e GS ci siamo dati un appuntamento proprio davanti all’edicola, esattamente il punto equidistante dalle nostre rispettive abitazioni. Era mattina presto, la scuola era finita, l’università era una specie di nebulosa che mi avvolgeva cinque giorni su sette, e l’edicola non c’era più. Fino alla telefonata della sera prima esisteva: esisteva concretamente. La lezione che ho tratto da questa prima fregatura è che “le cose cambiano / le cose finiscono”. Ci si fa l’abitudine e si conservano i ricordi.


GS si siede su una panchina che non c'è più (2002, rospe)


Colui che non c’è più. Uno dei casi più tristi di lenta – estenuante – sparizione che abbia mai dovuto costatare personalmente, riguarda una vecchissima libreria di Corso V.E. Non si trattava di una libreria di grande pregio o storica o ben fornita o qualcosa, era solamente una libreria vecchia. Lo era già ai tempi della mia prima perlustrazione ed era in avanzato stato di disfacimento. I libri sugli scaffali erano vecchi, intendo nuove edizioni rimaste lì per dieci, venti, trent’anni, senza che nessuno li acquistasse e – cosa assai più singolare – senza che nessuno se li venisse a riprendere. Era un posto dimenticato: quella era la libreria che stava chiudendo. L’amavo. Venivo a far visita al libraio, ovviamente vecchissimo, il più spesso possibile. Si lamentava di continuo della sua sfortuna: non riusciva a liberarsi della merce e del negozio: non ci riusciva. «Solo la morte ci può!». E ha avuto ragione. I suoi libri li rivestiva con cura con fogli di giornale… come si fa con il pesce al mercato. A volte passavo ore a leggere le sopracoperte senza neanche sapere cosa ci stesse dentro.


Scaffali (2007, rospe)


Ad un certo punto – esaurita la prima ondata degli anni Novanta di libri in allegato ai quotidiani – mi sono accorto di essere diventato mio malgrado un frequentatore “atipico” di libreria, praticando una sorta di cauto nomadismo. Per motivi di studio avevo fatto un lungo apprendistato nelle biblioteche cittadine, imparando ad apprezzare il caso e la fatalità come strumenti indispensabili nella scelta delle mie letture. Ma non mi era più sufficiente, la pratica del libro aveva ormai destato un’insaziabile brama di possesso. Con una bagaglio personale da autentico scassapalle bibliotecomane mi avventuravo nelle mie prime esperienze di caccia in un fitto sottobosco popolato da commessi e librai. Questi ultimi si differenziavano dai bibliotecari per diversi motivi, se i primi erano spesso saccenti ma oziosi e facevano di tutto per negarmi l’accesso ai loro tesori, i secondi erano spesso tristi ma solerti nel cercare di rifilarmi l’intero magazzino. Così, Il più delle volte. Se uno di loro mi si accostava premuroso, io immediatamente mi mettevo sulle difensive sciorinando il peggio del mio repertorio. «Sì, ma non quell’edizione, l’altra, quella di Tizio… ecco vede, dovrebbe stare all’incirca là, tra XY e YX. Manca, lo vedo». Mi domando ancora perché non mi abbiamo mai mandato a quel paese. Ovviamente, anche tra i librai esistono le eccezioni.


Ignoto, Segni sulla città (2005, rospe)


Colui che ti trapassa. Cerco un libro e non posso che cercarlo da lui. Devo quindi affrontare una preparazione scrupolosa. Sì, perché se entri nella sua libreria non lo puoi fare impunemente. Qui i libri non si comprano, se ne chiede una specie di adozione… qualcosa di temporaneo, e comunque sai bene che la risposta potrebbe essere negativa. Così ti prepari, ripassi a mezza voce, perché fogliettini non se possono usare: il curatore, l’anno di pubblicazione… e, attenzione al nome della collana, che è un classico scivolare proprio sulle cose più ovvie. Poi però viene il momento e non puoi più prendere tempo. «Caro signore, la scelta sarebbe pure buona, quasi appropriata… ma devo comunque sconsigliarla… non è il caso». Essere bocciati da lui vuol dire solo una cosa: rinunciare. Così aspetto ancora per quel libro (non dirò quale). Forse, magari un giorno, potrò sperare in una seconda possibilità. È un pensiero che condividiamo in molti: forse un giorno saremo pronti.

Confesso di non amare particolarmente le librerie, ho sempre avuto la predilezione per le bancarelle e i negozi scalcinati che rivendono libri di terza mano o scarti ingialliti. La mia biblioteca è un cimitero di scarti, anche se mi piace raccontarla in un altro modo: la mia biblioteca è il posto in cui finiscono tutti quei libri che gli altri non hanno saputo scegliere. Mai stato un buon cliente per i librai, intendo uno di quelli che i libri li comprano sul serio, facendo il loro dovere sino in fondo, quelli che comprano le novità, che leggono le recensioni sui quotidiani e sono sempre sul punto di citare l’ultima classifica, ma si trattengono per pudore. Dio li benedica, i lettori che hanno pudore delle loro virtuose abitudini.

Colui che impila. Ci conoscevamo dai tempi della scuola, ma non mi sarei mai aspettato di vederlo dietro un banco di vendita. L’avevo visto anni prima in versione mezzobusto – un po’ impacciato a dire il vero – a leggere notizie per un tg locale. Me lo sarei immaginato professore, giornalista, impiegato di assicurazioni o persino in tv conduttore di quiz a premi, ma non libraio. Posso dire che dopo averlo visto all’opera non ho più avuto dubbi. C’è chi nasce libraio e chi il libraio lo sa far bene. Lui appartiene di sicuro alla seconda specie, la più rara. Niente fronzoli, niente giochi di prestigio da illusionista, niente chiacchiere, tal volta è quasi brutale: se sei entrato è per comprare, se non sai cosa, non c’è problema, sta lì apposta. È il suo lavoro, lo fa con intelligenza e metodo: sta tutto nei suoi occhi magnetici che ti senti puntati addosso dal momento esatto in cui varchi la soglia. Lui sa. Ti conosce e sa. Ti ha apparecchiato la tavola già da prima, sapeva anche quando saresti entrato. La novità è in pila da trenta accanto alla cassa, ma quel libro che cercavi, quello che sicuramente sarà sfuggito a tutti gli altri… lui l’ha ordinato solo per te, ed ecco la pila da cinque che ti aspettava. Il giorno stesso in cui gli ho consegnato le prime copie dei nostri libri, ne ha vendute tre e io non avevo ancora staccato la bolla d’accompagnamento. Così ho visto in faccia i lettori :duepunti.


Scaffali (2006, rospe)


Una città fatta di librerie è una costruzione mentale, qualcosa che non può riflettersi nella realtà, che vive di equilibri estremamente incerti, incompleta e frammentaria tanto da assomigliarmi. Un disegno sentimentale che confonde i giorni in cui un Amleto (tascabile BUR) ha inaugurato la sezione teatro della mia bibliotechina, con quell’altro in cui ho comprato per la seconda volta lo stesso libro, con il sospetto di averlo già letto e avevo ragione (irresistibili copertine carta da zucchero), oppure con il triste pomeriggio in cui ho visto chiudere la piccolissima Feltrelli dei miei primi romitaggi a scapito della più piccola Feltrelli d’Italia. È difficile disegnare una mappa di una città del genere, mi posso solo limitare a fare un elenco di episodi, di punti d’approdo, di persone e libri. E oggi, nonostante tutto, le librerie in questa città sono un presenza abbastanza stabile, restano in un numero assolutamente sufficiente a garantire uno dei più bassi indici di lettura (ossia di vendite) della nazione. Certo, ne chiudono più di quante se ne aprano, ma ciò non sembra preoccupare nessuno. Altra storia è per i librai: scompaiono e a prendere il loro posto sono impiegati incolore. Ma io non sono particolarmente preoccupato: ho i miei ricordi.

* José Ortega y Gasset, La missione del bibliotecario, Sugarco, Milano 1984 (trad. it. Amparo Lozano Maneiro, Claudio Rocco)