Qualche tempo fa un amico – il solito amico che passa da noi e porta una buona idea – è venuto a trovarci e ci ha proposto di fare qualcosa sul tema della mafia. Le cose dapprima erano poco chiare, poi sono diventate caotiche. Mi piace quando si ha l’impressione di finire sommersi da un momento all’altro da qualcosa di più grande di noi. Non è che ami le sfide, e che non so tirarmi indietro. Così abbiamo iniziato a parlare. EP è uno che ha ancora negli occhi una luce, è dispersivo a volte, ma quella luce può diventare un faro. Lui è intermittente e noi siamo le formichine. Rimembranze scolastiche a parte, abbiamo preso a vederci più spesso del solito. Come sempre capita si comincia con le frizioni e poi escono fuori tutte le contraddizioni del nostro gruppo. È la parte più divertente del lavoro, in cui cambia forma, in cui si scopre che proprio le resistenze più ostinate possono essere quel chiavistello che apre ogni serratura. Volevamo parlare di noi, della nostra condizione, di quello che ci sta intorno e non volevamo sprecare l’occasione riempiendoci la bocca di parole trite, di oscene banalità. Volevamo sentire quelle storie che si dovrebbero raccontare ai più giovani. Volevamo scrivere una favola. La favola che ci era stata negata. Così siamo diventati noi stessi i destinatari di tutto quel lavoro confuso.

La mafia l’abbiamo accantonata, perché dalle nostre parti se ne parla sempre, di continuo, anche quando non si sa di farlo. La mafia dei giornali, dei giornalisti e delle dichiarazioni di Stato, la mafia dei preti, delle mamme, dei beghini e dei collaboratori, dei “è tanto una persona per bene”, degli insospettabili e dei ragazzi avvolti da striscioni, è roba che non appartiene al inventario di :duepunti. A tal proposito, il nostro unico merito è proprio quello di non fare niente per aggiungerci al coro. E poi, in via del tutto personale, non mi sembra di saperne un gran che, non tanto da dichiararmi esperto sull’argomento. Io l’ho scoperta per caso, ovvero, c’ho fatto i conti sul serio quasi senza accorgermene. Si è trattato di una questione lessicale: sono riuscito a liberarmi dal suo linguaggio – quello della violenza e quello ella retorica – quando l’ho ritrovata in me stesso, nella mia vita di ogni giorno, nelle piccole abitudini, nella mia vigliaccheria e nell’eroismo quotidiano di gente qualsiasi.

L’eroismo è per lo più inconsapevole, non cerca spettatori né consenso. Quando trovi un eroe devi saperlo riconoscere. Molto del tempo che ho trascorso girovagando per i meandri della mia città – Palermo – l’ho speso tenendo gli occhi ben aperti. Ho visto tante cose, tante cose diverse le une dalle altre, che poi portarle dentro tutte insieme s’è fatto difficile, e non è più stato possibile tornare indietro.

Primo bozzetto della copertina di 'Una giornata nera' (Marco Failla, 2005)

Chi è più esposto è sempre quello che ha più da perdere. Non c’è dubbio che non ci sia nessuno che abbia più da perdere di un ragazzino cresciuto per le strade di una città come questa. Ma ormai non parlo più di Palermo, né della Sicilia, ma dell’idea stessa di infanzia negata, di sopraffazione, di destini segnati, di riscatti improbabili sui quali nessuno giocherebbe un soldo. Ad un certo punto sapevamo cosa volevamo ottenere: volevamo poter seguire lo sguardo di Luca stendersi intorno a noi. Guardare attraverso i suoi occhi la piccola zuffa, colorata e grigia insieme, del Bene e del Male. Ma Luca, il ragazzino che abbiamo eletto a nostra guida, non sa in cosa stia la differenza tra questo e quello. Non lo sa, neanche noi lo sappiamo più. Non aveva senso ascoltare le parole degli imbonitori di piazza, né degli oracoli della società civile. Arrivati a questo punto sapevamo almeno che la confusione cominciava a dare i suoi frutti: iniziavano a delinearsi delle verità. Le ferite bisognava mostrarle, ma dovevamo dare una possibilità a Luca. Luca è quello che può ancora farcela. Tutti possono farcela, ma hanno bisogno di poterci credere, di potere sperare e imparare a desiderare. Ci siamo detti: dobbiamo riprendere a raccontare favole per dare una speranza ai ragazzini come lui e anche a quelli cresciuti come noi, viziati, in un mondo ovattato, protetti da cortine fittissime di menzogne.
Palermo, la città più cool d’Italia.

Non so più quando è saltata fuori l’idea di fare un fumetto, non so davvero a chi possa essere venuta in mente l’idea di scrivere una storia sul lavoro nero e l’infanzia. EP ha sempre continuato a insistere, a mostrarci che strada prendere, anche quando lui stesso non aveva risposte per noi, che ci trinceravamo dietro obiezioni da editori alle prime armi. Lui ha resistito, sempre con quella sua luce negli occhi, sempre sicuro di una cosa: che fosse importante. Ecco, cosa anche per noi è importante: provarci.

La tenacia di EP è indelebilmente fissata nel DNA di Luca e del nostro “fumetto sociale” (Una giornata nera). Sono persone come lui, che hanno quella luce e neanche lo sanno, che sono più forti di ciò che li circonda, che sono resistenti a qualsiasi avversità, anche alla sfiga più nera. Un fumetto non cambia la vita a nessuno, ma può essere ugualmente l’occasione per fare una cosa meravigliosa: provarci.

Claudio Morici e Marco Failla (illustrazione di Marco Failla, 2005)

Di Claudio e Marco, del loro lavoro e del nostro, non era il caso di scriverne adesso. Ci sarà occasione per ritornare su questo laboratorio, per parlare di quando si incrocia la strada con persone eccezionali, che sembrano esistere soltanto perché qualcuno ne possa raccontare le gesta.
• Claudio Morici e Marco Failla, Una giornata nera, collana punti di fuga, :duepunti edizioni, 2005