Ho dormito malissimo. Esco da una lunga settimana di lavoro, ritmi normali di dodici/diciotto ore, e pochissimo spazio per altro. Questo vuol dire che per giorni non ho seguito un telegiornale, sfogliato un quotidiano, aperto una pagina internet che non riguardasse strettamente le relazioni limitate che intrattengo con il mondo. Così inizia il mio finesettimana e scopro che gli States hanno il loro primo presidente di colore (a dire il vero questo l’avevo intuito) e che noi italiani per una specie di sentimento del ridicolo – sentimento prevalente negli ultimi decenni – siamo riusciti ad anticipare persino Ahmadinejad e le solite beghe sul nucleare. Il nostro presidente del consiglio, scherzosamente, definisce il nuovo presidente degli Stati Uniti d’America “abbronzato”. Ne seguono polemiche. Imbecilli.

Melanzane: imbecilli! (2008, rospe)


Sfogliando le pagine di un best seller di qualche tempo fa mi sono imbattuto in una cosa del genere: «chi è senza peccato scagli la prima pietra». C’è sempre qualcuno che ti giudica per quello che hai fatto, per quello che hai detto, per quello che non hai detto. Spesso si incappa in entusiasti che desiderando giudicare “qualcuno” ad ogni costo, non hanno di meglio che esercitarsi su di te. Ritengo che sia difficile essere “senza peccato”, ma si può ovviare a questo inconveniente ignorandone le implicazioni e dedicandosi anima e corpo alla scelte dei proiettili. A questa natura appartengono i censori, ma anche buona parte dei polemisti, vincolati per motivi professionali a dar seguito a illazioni e ipotesi peregrine senza più badare alla forma o alla sostanza. Un tempo si sarebbe tirata in ballo la componente ideologica per rivelare la disonestà degli uni e degli altri, oggi si deve ripiegare su un piano un po’ più meschino: il triviale – il trash – tira. Purché si possa tirarla per le lunghe. Imperdonabile è per l’appunto la perdita del senso del ritmo, la perdita di quella sensibilità che anima ogni singolo aforisma di Karl Kraus, sempre sopra le righe, impeccabile, scorretto e definitivo. Essendo venuto meno il vincolo della forma (non è più una necessità), non ci si riesce a sottrarre al bisogno di giudicare “per non essere giudicati”, così l’esercizio polemico non rivela nulla di nuovo e siamo ancora all’ipocrisia biblica dei lapidatori con la trave nell’occhio. C’è sempre qualcuno che ti giudica per quello che hai fatto (Hitler, Mengele, Franco, Stalin, Putin), per quello che hai detto (S.B., Oriana, Calderoli, Marilyn Manson), per quello non hai detto (Veltroni, Pio XII, Licio Gelli, Zidane).
Non amo troppo i blog e i comizi. Ritengo che sia consigliabile disertare sia gli uni che gli altri, ma per i primi può essere una perdita (per i secondi si tratta certamente di una perdita di tempo). Tutte le volte che ho seguito i commenti nei forum ho riscontrato, bene o male, le stesse abitudini e gli stessi vizi. Per puro caso sono finito io stesso dentro ad una di queste agoni virtuali. La cosa di per sé mi ha persino lusingato – come e perché negarlo – ma allo stesso tempo ha rafforzato in me il desiderio di astenermene. Domenico Pinto, mesi fa mi ha proposto di inserire una pagine del mio controblog su Nazione Indiana. A che titolo? Saranno pure fatti suoi? Evidentemente gli era congeniale l’idea di lasciare raccontare alle mie pagine seminascoste il senso di un mestiere fatto di altre cose, cose che non appaiono nei libri stessi né appartengono alla prosopopea degli editoriali e del giornalesimo. Perché abbia scelto quel racconto in particolare è ancora una volta una questione che non mi riguarda personalmente. Lui mi ha chiesto il permesso e io gli ho detto semplicemente «sorprendimi». C’è riuscito, ma hanno fatto di più i commentatori di N.I. che hanno in breve alimentato un vespaio colorito di velate e direttissime accuse, il tutto senza mai specificare il motivo della calorosa e genuina indignazione. Diligentemente ho letto, ho persino precisato, ma alla fine mi sono arreso alla contemplazione del proliferare inarrestabile di autentico livore. Il polemista come il moralista alimenta il sacro fuoco, il furore popolare come è giusto che sia: castigare, castigare. Ma perché gli obbiettivi restano oscuri, inespressi, non completamente espressi? Al termine di una lunga tirata ci si ricorda sul serio quale fosse la causa o la colpa? Ho paura che l’eccesso di libertà – virtuale – di internet faccia spesso dimenticare ai franchi tiratori il bersaglio.


Fuochi fatui, Caltanissetta (2008, rospe)

Poi è morto Funari. E ho dovuto dolorosamente pormi qualche domanda sulla natura dei pazzi, profeti, tribuni. Da Savonarola all’anonimo predicatore dello Speakers Corner londinese, piovono su di noi continue invettive, accuse, minacce ed esortazioni. Alcune hanno lo scopo di essere illuminazioni. Funari non lo voglio giudicare, né assolvere né condannare, però ricorderò sempre i primi coccodrilli apparsi prima che venisse smielata la solita sequela di reportage dalla camera ardente con il popolo della strada in processione. Tanti occhioni lucidi e le solite cose (tra parentesi le stesse che ricordo per le esequie pubbliche di Milosevich e per il cavallo Varenne). I primi a segnalare la dipartita di Gianfranco Funari sono stati gli ipocriti che finalmente hanno potuto pareggiare qualche conto in sospeso. Hanno dovuto fare in fretta. Avversari eunuchi. Ma è la regola del gioco, è la regola della favoletta del vecchio leone e dell’asino. Un modo redditizio di saldare un conto è aspettare che il proprio avversario non possa più ribattere. Amen.


dar fiato ai nostri tromboni (2008, :duepunti)

Non ci sono più le mezze stagioni. E questo vuol dire che le zanzare non vanno in letargo. La cosa mi irrita. Odio darla vinta al mio lato irascibile. Sono naturalmente portato alla rissosità nevrotica del genere di Paperino con la sedia sdraio. Sottrarmi alle polemiche e ai litigi è più una precauzione sanitaria che remissività di carattere. La cosa che più mi fa imbestialire delle polemiche, dei litigi, delle precisazioni infinite, dei dibattiti, dei cialtroni, dei ciarlatani, dei profeti e degli evangelisti è il bisogno di una ricomposizione finale. Arrivare al punto. Ciò che fatalmente non si raggiunge mai. Non amo le polemiche, ma dicono che ne sia un innescatore automatico. Sarà vero. Di certo non ho il dono della concisione e questo non aiuta affatto. Ho sperimentato che i polemisti non amano le repliche, preferiscono ascoltare la propria voce. Io stesso ho un rapporto malsano con la mia voce. Ascoltare le mie ragioni – anche quando so di avere ragione – mi mette tristezza, mi sento avvolgere da una stanchezza infinita. Alimentare incomprensioni e dare fiato alle proprie trombe è terribilmente deprimente… se si è l’unico ad ascoltare.

Spesso sfogo i miei furori polemici con i libri, che non sono mai indifesi, anche quando corrono il serio rischio di sfracellarsi contro il muro scompaginandosi. I libri non sono mai del tutto neutri… sanno ascoltare e mutano di conseguenza, pagina dopo pagina. Litigare con un buon libro (ma è lo stesso con quelli pessimi) è comunque un’esperienza. Resta qualcosa, anche poco. Forse è proprio perché davanti a un libro ti trovi solo, e difendere le tue ragioni non è più una forma di teatrino con tanto di pubblico, non valgono più le regole della rissa. Non puoi schiumare, far roteare gli occhi e additare questo o quello. Ovvero, puoi farlo, ma chi entra nella stanza dove ti trovi con un libro tra le mani ti prederà per uno squinternato, di certo non apprezzerà la tua passione civile. E adesso penso a quel racconto di Kafka, in cui riprendendo la storiella biblica del fedele che prega soltanto per farsi vedere, rivela la fatuità di tutto ciò che rendiamo pubblico per sottrarre noi stessi al silenzio di dio. [tutti liberi di fraintendere Kafka, ovviamente]


Lische (2008, rospe)


È sorprendente e frustrante avere a che fare con chi è già frustrato per qualche sua validissima ragione, e trova nella polemica il rimedio. Non otterrà mai piena soddisfazione da te, anche se gli offri le prove della tua colpevolezza, che appunto gli mancavano. Non otterrai soddisfazione dal farlo dialetticamente in frantumi, né dal seppellirlo con una caustica battuta (magari rubacchiata al vasto repertorio marxiano). Non capirà le tue intenzioni, non coglierà l’umorismo, non apprezzerà lo sforzo e alla fine sparirà anche per te la voglia di riderci su. L’unico modo per attenuare le perdite di fronte a casi del genere è negare, negare che quel tale si stia rivolgendo proprio a te. Negare, negare sempre… prima o poi sparirà. È la strategia che continuo ad applicare al tormento della zanzara notturna: preferisco essere morso, negando la sua presenza, piuttosto che alzarmi nel cuore della notte e armato di spray o ciabatta inseguirne le evoluzioni fino all’alba. Dormo male, mi gratto spesso, ma dormo.


Sulla graticola, Casteldaccia (2008, rospe)


Ricapitolando. Le grandi polemiche si dividono in due tipi: quelle pubbliche, che generalmente non producono alcun risultato (oltre a favorire l’azione della freccia del tempo e del surriscaldamento del globo terrestre: si veda il tribunale di Salem e Giordano Bruno), e quelle di natura privata le cui conseguenze, anche quando sono impercettibili, il più delle volte si rivelano catastrofiche. Le parole (in)appropriate per cui le cose vanno in pezzi. Sottrarsi non è sempre possibile, spesso è il peccato più grave: quello di omissione. Non ci si può sottrarre alle proprie idee, figuriamoci alle altrui. Provo a fare tesoro della lezione di Voltaire, paladino della tolleranza e del diritto di replica contro ogni censura. La tolleranza aiuta, fare esercizio di tolleranza quotidiana aiuta. Dovrebbe aiutare. In tanto dopo aver sentito Capezzone al tg uno spaventoso eritema si diffonde sul 90 % di me e della mia coscienza appena riappacificata con le zanzare. Non mi resta altro che grattarmi.

INAPPROPRIATO MA IN TEMA:

_______Ma nondimen, rimossa ogne menzogna,
______tutta tua visïon fa manifesta;
129 ___e lascia pur grattar dov’è la rogna.
_______Ché se la voce tua sarà molesta
______nel primo gusto, vital nodrimento
132____lascerà poi, quando sarà digesta.

(Il discorso di Cacciaguida: Dante, Paradiso, canto XVII, 127-132)