«I libri si parlano sempre, alcuni dialogano altri no».

Da questa sentenza occasionale traggo ispirazione per un piccolo esperimento di comparazione: due libri, due titoli, il primo destinato a restare caposaldo quasi inavvicinabile della nostra cultura e l’altro una specie di calembour (poco più di una irriverente pernacchia) destinato all’oblio. Restando alla superficie, al titolo in copertina, verrebbe da pensare che un senso l’accostamento lo debba avere. «Forse che sì, forse che no».

Detto questo, lasciamo Mario Praz al suo posto con il monumentale saggio “La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica” (Sansoni 1930; Bur Rizzoli 2005, introduzione di Francesco Orlando), e, dichiarando insensata ogni comparazione, proviamo a spendere due parole per un libro trovato nel fondo di un cassone da robivecchi, che, forse, un paio di minuti li merita.

Claudio Quarantotto (1936-2014), giornalista controcorrente, tagliente e conservatore, degna figura epigonale dei prezzolini ante guerra, ne è l’autore, perché abbia fatto il calco al libro di Praz (mi) è… indifferente.

Il suo mandato fu quello di ricostruire lo sguardo della destra moderatamente servile ma sprezzante, tra i (non) pochi meriti, ascrivibili alla sua lunga militanza nei territori irredenti della palude, troviamo la partecipazione alla fondazione de «Il Borghese» negli anni Cinquanta, all’ombra del sofisticato iconoclasta Leo Longanesi e in buona compagnia se non altro (sulla rivista appaiono le firme di Indro Montanelli, Giuseppe Prezzolini, Gaetano Baldacci, Mario Tedeschi, Alberto Savinio, Giovannino Guareschi e persino Giovanni Spadolini). La lezione rifondativa da retroguardia diventa avaguardista con la fondazione del mensile «La Destra» (1971-1976), sorta di spin-off de «Il Borghese», che con salda ostinazione iniziò un opera di disseppellimento di nostalgie “puerili” (come le definisce Umberto Eco): la Marcia su Roma e il Senso della storia (in nero), sono argomenti forti per controbilanciare l’egemonia della contestazione sinistrorsa.
Quarantotto diresse anche la collana “I Libri del Borghese”, che alla sua seconda uscita lo vede in veste di autore di una sorta di pamphlet-puzzle – Il cinema, la carne e il diavolo (1962) – per una sorta di resa dei conti con l’avversario di sempre, il diavolo rosso.
Ecco, Quarantotto non ha lo spessore per essere un eretico, e se fa il bastiancontrario è per opportunismo e strategia, l’egemonia di fatto della cultura italiana, dagli anni Cinquanta agli anni Settanta, ha bisogno di eretici veri (spesso martiri) per entrare in crisi, per mostrare la sua natura e le sue crepe. Quarantotto non partecipa a questo processo critico, probabilmente restare ai margini, circuire, ricucire il rapporto di stretta fidelizzazione conservatrice con il nostro italiano medio è già tanto per lui, però un merito (postumo), persino questo suo libello irriverente e ingiurioso, lo ha davvero: ci ricorda come il sistema Cinema Italia nasca “nelle” ceneri di una storia tutta fascista, di speculazioni imprenditoriali, di corruzione e ipocrisia.
Il Festival di Venezia è una creazione del massone, fascista e oligarca Giuseppe Volpi, conte di Misurata, e sempre a lui è ancora oggi intitolata la Coppa Volpi per il miglior attore (che, a mia memoria, pochi dei nostri calzamagliari hanno rifiutato, fingendo distrazione).
Ma le ipocrisie del cinema e della cultura italiana del dopo guerra tinto di rosso non saziano mai Quarantotto e nel suo catalogo di infamie e ingiurie c’è spazio per ricordare le performance “fasciste” di alfieri della cultura à la page, da Pirandello a Ungaretti e Comisso, per poi mettere in fila sfilze di nomi di “incoraggiati”, che con elargizioni di Regime diventano clientes tout court (Sapegno, Bellonci, Stuparich, Carlo Bernard, ossia Bernari, Alfonso Gatto, Luciano Anceschi… e Almirante, Fanfani ecc.), tutti insieme, come fossero correi citati a testimoniare un sentimento comune, clientelare, appunto. Insieme a questi coristi spuntano anche delle voci “esemplari”, che in ben orchestrati a solo, ambiscono a svelare verità pulcinellesche: ed ecco gli enfatici «fascisti di razza Indro Montanelli e Michelangelo Antonioni», o Fausto Coen, che esalta le virtù spirituali del fascismo, quasi una fede, quasi uno sport (ma è solo il 1935). Non si finisce mai, ogni capitolo in modo tendenzioso o insinuante ci suggerisce quello che l’egemone salmodiante apparato non voleva ricordare: tangenze e tangenti, le leggi razziali fraintese alla prim’ora, il sessismo come omaggio alle belle gambe delle dive, la mamma-matrona e tutto in gloria a dio.

Un libro (brutto) che ha un posto d’onore nella mia biblioteca.



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