La settimana ha avuto come filo conduttore quello del telefono. A dire il vero cinque telefonate in particolare hanno svolto un ruolo fondamentale nel rendere il mio umore perfettamente nero. Due fatte, due ricevute e una soltanto attesa. L’ultima è per me un mistero. Non mi piace sciupare i misteri. Posto che lo sia: lasciamo che lo resti. Ma c’è un altro mistero che s’è sciolto solo pochi minuti fa, e dato che è legato a un libro posso anche parlarne. E poi, adesso non è più un mistero. Per tutta la settimana mi è sembrato di essere sul punto di trovare un senso comune a tutte quelle telefonate, ma era soltanto una sensazione. Si trattava di un tarlo. Scava scava, ne verrà fuori qualcosa. Nel frattempo andavo accorgendomi che ogni qualvolta mi ritrovavo davanti all’apparecchio, quasi sovrappensiero, ripetevo più volte: «cretino, cretino, cretino».
Per ordine. La giornata inizia con un bel buco, una distrazione generale che permette una diserzione temporanea dagli impegni d’ufficio. Un buco di 15 minuti. Ottimo per prendere una boccata d’ossigeno e fare una telefonata. L’assenza di testimoni mi porta a comporre il numero a memoria (non ho bisogno di fingere che si tratti di uno di quelli scarabocchiati con ordine sulla mia agenda-vecchio-quadernetto-delle-elementari). «Ciao! Come va? / Benissimo. Che bello, non mi aspettavo una tua telefonata… puoi aspettare un secondo… sono al cellulare con xxx. Ti spiace? / No, fai pure. […] Va be’, ti richiamo? / No, assolutamente. Aspetta solo un minuto. […] Allora, che volevi? / Niente… volevo farti una sorpresa. / Dai, non fare il permaloso: raccontami le novità. Raccontami di quello che state facendo giù da voi. / Allora te lo dico. Non ci crederai ma stiamo pensando di lavorare ad un documentario su :duepunti, come è nata l’idea di aprire una casa editrice in questa cit… / No! Ma che dici… sa di una cosa noiosissima, e poi a chi interessa? / Be’, sai non è che si tratti di molto più che un progetto in questo mom… / Sì, ma ormai cose così se ne fanno di continuo. A chi vuoi che interessi? / Non è un problema mio… Intendo dire che non è l’idea per uno spettacolo televisivo, è un esperimento per avere il modo di provare a raccontarci tra di noi quello che siamo, quello che vorre… / Sì, sì, ma non sono cose che interessano a nessuno. Ecco vedi, hanno fatto il film sulla Feltrinelli. Quello sì che è davvero interessante. / Certo, ma non è la stessa cosa. / Naturalmente, loro sono famosi. / Sì, ma non c’entra. A noi preme di più sperimentare per tornare a fare cose insieme […]». A questo punto della telefonata mi rendo conto che la conversazione non è andata più avanti dei saluti. Li rinnovo col commiato e ho la sensazione che il buco di 15 minuti sia diventato uno buco nello stomaco. Cretino.
Oggi. Dopo orario di chiusura. Mi sono trattenuto per evitare di tornare a casa in tempo per poter telefonare a mio fratello… e magari chiedergli scusa per come l’ho trattato l’ultima volta. Magari potrei comporre un altro numero e continuare a dare ulteriori spiegazioni sul progetto di un documentario… che non interessa a nessuno. Magari potrei dirle che sto scrivendo un blog. Magari. Magari non è una cosa interessante. Magari a me non sono mai piaciuti questo genere di discorsi: quando faccio una cosa mi basta sapere che metto tutto il mio impegno nel portarla a termine. Non mi è mai interessato avere l’approvazione degli altri. Non mi piace giustificare le mie scelte alla luce di quelle altrui. “Non si parla al conducente” (Pablo Picasso). Magari non mi va di litigare. Magari. Suona il telefono. «Ciao… Ma chi sei? Ancora a lavoro? / Be’, sì… un caso, e tu perché a quest’ora? / Be’, sai… quel carico… quello che doveva arrivare da voi lunedì? / Certo. / Ecco…, niente di catastrofico… / (capisco che in realtà voleva lasciare un messaggio nella segreteria telefonica e avermi trovato ancora in ufficio, decisamente, non era previsto) / Niente di catastrofico… insomma. Ma non è che fa lo stesso se arriva la settimana dopo? / No… tanto prima non arriverà, o sbaglio? […]». La telefonata continua ancora per un po’. Niente di catastrofico. È un modo come un altro di vedere le cose. Cretino.
Ecco, cretino. Al termine di questa settimana la parola d’ordine è questa: cretino. A volte vorrei essere esattamente così. Come dice Carmelo Bene in quel libro. Impegnarsi a fondo per essere, anzi diventare un perfetto cretino. Qualcosa di differente dal cretino qualsiasi. Una splendida macchina per recitare il ruolo che questa vita ci costringe a ripetere all’infinito. Non avere più coscienza, né dubbi, né desideri, né debolezze, né pensieri. Ecco, mi riduco così alla fine di una settimana come questa. Un aspirante perfetto cretino.
«Dormiva. Quando era stanco dormiva a bocca aperta. Come un cretino. Sarebbe stato felice di saperlo. Le notti, le avrebbe trascorse a mirarsi dormire. Vivere è in fondo assistere a una disgrazia o una festa, ma solamente assistere, coinvolti fino a un certo punto, testimoni al massimo e non più. Il peso è religione, etica, e tante volte estetica, rose di piombo e nuvole pesanti, nevicate schiaccianti. Basta togliere l’aria, non contare più sui muscoli, non camminare perché si hanno le gambe. Volare. Assistere. Assistere con tutta l’anima, guardare con tutta l’anima. Appassionarsi come a un caso altrui. Vergognarsi dei propri problemi. Indulgere. Essere buoni con sé stessi. Dov’è un carcere, liberare una farfalla. Ucciderne una invece di andarsene. Volare. Dormire. Volare addormentati, per amare senza essere amati, o anche riamati. Decidere soprattutto quando non dipende da noi, ubbidire. Dormire comunque. O semplicemente tradire».
(SugarCo, Milano 1978, pp. 31-32)