Una volta abbiamo costruito una scatola alta due metri e mezzo, aveva la struttura in metallo ma era rivestita interamente di cartone, anzi era il cartone l’anima della scatola. Di recente abbiamo costruito una gabbia (ma il materiale delle sbarre resta e resterà un segreto). Entrambe queste scatole, una aperta l’altra chiusa, sono servite a uno scopo, entrambe l’hanno raggiunto rispettando un destino comune: durare nel tempo brevemente. Una s’è disfatta ed è stata riassorbita dalla spazzatura da cui veniva (il cartone era di riciclo e selezionato secondo il principio del minor sforzo, ossia buona qualsiasi cosa), l’altra è stata disassemblata come uno di quei giochi di costruzioni da fissati, al termine assomigliava ad una partita di shangai giocata tra ubriachi.

• Qualcosa o nulla (2010, rospe)

Tra Minimarket, così si chiamava una istallazione di :duepunti prima di essere casa editrice, e lo ZOO, sono trascorsi più di dieci anni, ma noi continuiamo a montare e smontare enormi giocattoli con cui chi ci incontra deve misurarsi per forza. Questo tema – la forzatura – si accompagna a quello della scatola, quindi della sorpresa. I principali destinatari della sorpresa finiamo con l’essere noi, sia quando ci aggiriamo all’esterno della scatola sia quando invece ne siamo imprigionati. Inviterei qualcuno di competente a provare a trarne le conseguenze, magari non è necessario che sia proprio competente e può anche sparare a casaccio. Tanto, più o meno, a mio avviso coglierebbe nel segno, ovvero non saprei come ribattere.


 • Uno scatolo disegnato (composizione)

La scatola numero 1, la cosa che noi chiamiamo “lo scatolo” con compiacimento tutto terrone, era un ammasso di parti incongrue che per accostamento riproducevano (avrebbero dovuto riprodurre) lo spaesamento pocotecnologico provato davanti alle profferte iconografiche e simboliche della nostra società dei consumi. Una società che si consuma al ritmo di cartelloni pubblicitari, riviste patinate con femmine scollacciate, talvolta intere talvolta ridotte a squisito dettaglio anatomico, parole, slogan, lavatrici, oggetti da toccare e altri che stimolano fantasie olfattive, il tutto incastrato a forza in pannelli stracarichi di illustrazioni e indicazioni (inutili) per l’uso. Cose che si chiamavano “il guanto scagazzante” o “fagiolo rotante” ecc. Una volta montato il nostro scatolo aveva il solo scopo di essere smontato. Gli unici che hanno avuto il coraggio di aiutarci a tirarlo su e a distruggerlo sono stati i bambini casualmente presenti nei quattro giorni di work-in-progress: benedetta gioventù, benedetta noia. Gli altri, i destinatari di questa nostra raffinatissima riflessione estemporanea si sono guardati bene dal degnarla di uno sguardo.


• Zoo ||| libri dietro le sbarre (2010, rospe)

La scatola numero 2, detta gabbia in quanto del tutto simile a una gabbia, non aveva altro scopo che attirare gli sperduti visitatori della Fiera del Libro di Roma, che per strano (e insensato) caso gli organizzatori insistono a chiamare “Più libri più liberi”, come se possedere più libri rendesse più facile, o possibile, la libertà. Attirare visitatori e condizionarne gli acquisti. Insomma una gabbia pubblicitaria per fare soldi. E la cosa ha anche funzionato. Ed è stato divertente, ma amorale sotto certi punti di vista… ma in fondo più divertente e lucroso che amorale. Dopo il montaggio e la preparazione dell’esca ho assistito a un progressivo spossessamento: da espositore a merce e da merce io stesso a semplice suppellettile. La gente mandata in orgasmo dall’archetipo della gabbia/zoo/prigione/cella andava fuori di testa, e dopo un timido approccio «ma chi vi c’ha messo?» o «che siete pericolosi?», raggiungeva il sublime con «ma è intenzionale?». E, come prevede la più sana retorica, alle parole seguono i fatti  e quindi quelli autorizzati dall’assenza di guardie armate hanno cominciato a strappare i libri ordinatamente disposti in pilette da cinque pezzi, divorare pagine e scuotere le sbarre fino a implorare di poter fare un salto dall’altro lato. Io un po’ divertito, un po’ preoccupato mi sono limitato nei casi estremi a far notare che dietro le sbarre già c’erano anche così, ma i più esaltati (di quelli ancora in possesso delle proprie facoltà dialettiche) ribattevano a tono che non era sufficiente star dietro, bisognava starci dentro… alla gabbia. Ma perché? Perché è la realizzazione di una metafora… Una metafora? No, si trattava solo di una trovata pubblicitaria: dovete solo comprare i libri e sostare quanto basta per dare l’impressione che valga la pena fermarsi al nostro stand (cacchio questa era l’idea: l’anno prossimo porto una latta di supercolla).


• Non si accettano noccioline (2010, rospe)