Tra Minimarket, così si chiamava una istallazione di :duepunti prima di essere casa editrice, e lo ZOO, sono trascorsi più di dieci anni, ma noi continuiamo a montare e smontare enormi giocattoli con cui chi ci incontra deve misurarsi per forza. Questo tema – la forzatura – si accompagna a quello della scatola, quindi della sorpresa. I principali destinatari della sorpresa finiamo con l’essere noi, sia quando ci aggiriamo all’esterno della scatola sia quando invece ne siamo imprigionati. Inviterei qualcuno di competente a provare a trarne le conseguenze, magari non è necessario che sia proprio competente e può anche sparare a casaccio. Tanto, più o meno, a mio avviso coglierebbe nel segno, ovvero non saprei come ribattere.
La scatola numero 1, la cosa che noi chiamiamo “lo scatolo” con compiacimento tutto terrone, era un ammasso di parti incongrue che per accostamento riproducevano (avrebbero dovuto riprodurre) lo spaesamento pocotecnologico provato davanti alle profferte iconografiche e simboliche della nostra società dei consumi. Una società che si consuma al ritmo di cartelloni pubblicitari, riviste patinate con femmine scollacciate, talvolta intere talvolta ridotte a squisito dettaglio anatomico, parole, slogan, lavatrici, oggetti da toccare e altri che stimolano fantasie olfattive, il tutto incastrato a forza in pannelli stracarichi di illustrazioni e indicazioni (inutili) per l’uso. Cose che si chiamavano “il guanto scagazzante” o “fagiolo rotante” ecc. Una volta montato il nostro scatolo aveva il solo scopo di essere smontato. Gli unici che hanno avuto il coraggio di aiutarci a tirarlo su e a distruggerlo sono stati i bambini casualmente presenti nei quattro giorni di work-in-progress: benedetta gioventù, benedetta noia. Gli altri, i destinatari di questa nostra raffinatissima riflessione estemporanea si sono guardati bene dal degnarla di uno sguardo.
La scatola numero 2, detta gabbia in quanto del tutto simile a una gabbia, non aveva altro scopo che attirare gli sperduti visitatori della Fiera del Libro di Roma, che per strano (e insensato) caso gli organizzatori insistono a chiamare “Più libri più liberi”, come se possedere più libri rendesse più facile, o possibile, la libertà. Attirare visitatori e condizionarne gli acquisti. Insomma una gabbia pubblicitaria per fare soldi. E la cosa ha anche funzionato. Ed è stato divertente, ma amorale sotto certi punti di vista… ma in fondo più divertente e lucroso che amorale. Dopo il montaggio e la preparazione dell’esca ho assistito a un progressivo spossessamento: da espositore a merce e da merce io stesso a semplice suppellettile. La gente mandata in orgasmo dall’archetipo della gabbia/zoo/prigione/cella andava fuori di testa, e dopo un timido approccio «ma chi vi c’ha messo?» o «che siete pericolosi?», raggiungeva il sublime con «ma è intenzionale?». E, come prevede la più sana retorica, alle parole seguono i fatti e quindi quelli autorizzati dall’assenza di guardie armate hanno cominciato a strappare i libri ordinatamente disposti in pilette da cinque pezzi, divorare pagine e scuotere le sbarre fino a implorare di poter fare un salto dall’altro lato. Io un po’ divertito, un po’ preoccupato mi sono limitato nei casi estremi a far notare che dietro le sbarre già c’erano anche così, ma i più esaltati (di quelli ancora in possesso delle proprie facoltà dialettiche) ribattevano a tono che non era sufficiente star dietro, bisognava starci dentro… alla gabbia. Ma perché? Perché è la realizzazione di una metafora… Una metafora? No, si trattava solo di una trovata pubblicitaria: dovete solo comprare i libri e sostare quanto basta per dare l’impressione che valga la pena fermarsi al nostro stand (cacchio questa era l’idea: l’anno prossimo porto una latta di supercolla).
lo scatolo numero 1 era la lavatrice: io me la ricordo benissimo, in mezzo al parco della favorita, ero tra quelli che passava ignorandola (ma solo perché un po’ più in là c’era la proiezione a ciclo continuo di cinico tv…); invece in questa fiera dei libri avete coniugato il cinismo commerciale e la scatola, inserendo l’uno nell’altra: bravi!!
Io che sono stata tutto il tempo di lato alla gabbia? Come mi pongo? E che presa di posizione è stata? Che mi significa?
Ma soprattutto: l’anno prossimo con la supercolla non ci passo da voi perché macchia i vestiti!
(piùlibripiùliberi è una cazzata come lo slogan di quest’anno con quell’orrenda aragosta di carta!)
Mi ricordo perfettamente: era una calda estate del 1999. Festa di Liberazione organizzata nello spazio adibito a colonia comunale dentro il parco della Favorita di Palermo. A dire la verità quando ho guardato quella istallazione non ho avuto dubbi: pensavo che foste pazzi. Col senno del poi, visto quello che continuate a fare, penso di aver avuto ragione…
ben due testimoni dello “scatolo”: sono quasi commosso.
come si pone Seia? in modo circospetto, defilato quanto basta per essere nell’inquadratura ma appena percettibile, distrattamente in agguato, oppure, in altri termini: in modo perfettamente obliquo, di traverso…
E chi ti mette dietro le sbarre a te.
L’aragosta è stata una trovata sensazionale: anche se non commestibile è riuscita a restituire per intero una sensazione di malessere generale… come di roba avariata servita al doppio del prezzo.
E poi, vogliamo ammetterlo? aragosta, astici e crostacci vari prima di arrivare al piatto fanno una fine orribile, passando da un suplizio all’altro…
Insomma, immagine più appropriata per interpretare iconologicamente l’attualità della piccola e media editoria italiana, non poteva essere scelta.
Un plauso alla felice intuizione.
ruychi
“In agguato” sa un po’ di selvaggio e famelico ma mi pare adatta come definizione.
Quanto all’aragosta di carta, ruychi, mi hai convinto: fantastica ma inconsapevole metafora. Del resto il tuo libro preferito è “Tuono a sinistra”, no? Non potevi che essere acuto.
Me la ricordo eccome quella scatola della favorita.. c’era anche qualcosa di mio… un tubo di cartone e molti sorrisi…una serata estiva… un nuovo inizio… poche parole… curiosità.