I libri possono cambiare la vita delle persone. Ci sono quelli come la Bibbia, per cui scorrono fiumi di sangue, vengono bruciati altri libri e che alla fine nessuno, o quasi, legge sul serio. Non mi interessano questo genere di libri, preferisco i miracoli più discreti, quelle piccole grandi insidie nascoste tra le pagine di volumetti insospettabili. L’ho già scritto, credo molto nella frammentarietà della nostra vita, nella casualità con cui le nostre esperienze si vanno accumulando e così facendo ci formano. Credo che ogni volta che si ha un libro tra le mani, possa accadere qualcosa. Lo spero, lo temo. Anche per questo motivo sono molto diffidente nei confronti dei “sacri testi”, ho come l’impressione che tutto il mondo si aspetti qualcosa da me. Devi odiarli, o amarli, non hai scelta. A volte provo indifferenza. A volte sono attratto irresistibilmente da qualcosa che luccica e che magari è finito dietro le grate di un tombino.

Due grandi saggi delle nostre lettere hanno provato ad insegnarci l’arte di smarcarci dai classici, e di amarli. Fruttero&Lucentini, anomali fino al loro modo di separarsi restando insieme (un po’ come Castore e Polluce), anni a dietro, proprio subito dopo la zuccherosissima sovraesposizione di Baricco con il suo Pickwick in tv, ebbero la strampalata idea di fare altrettanto. La trasmissione si intitolava «L’arte di non leggere», loro due erano soli nel loro studio claustrofobico di scrittori/lettori/esploratori. Si contraddicevano l’un l’altro e poi come un meccanismo “perfetto” macinato dall’uso e dal tempo, aprivano piccole brecce. Il libri possono cambiare la vita, ma non sono obbligati a farlo. L’arte di non leggere era stato tolto da un aforisma di Schopenauer: all’incirca, voleva indicare la libertà del lettore di scegliere le proprie letture. Di fronte a miliardi di libri per lo più inutili, anche la scelta di “non leggere” quel particolare libro può risultare una validissima scelta.



Il primo libro che ha cambiato la mia vita è stato Alice nel paese delle meraviglie, in un’edizione di grande formato, con strane illustrazioni dai colori irreali. So per esperienza che tutte le biblioteche dei ragazzi, dagli anni Sessanta ai primi anni Ottanta (dell’ultimo scorcio del millennio passato), hanno accolto quegli splendi volumi dalle pagine taglienti: ancora oggi mi capita di confrontare le mie cicatrici con quelle di trentenni e quarantenni, che, fierissimi, indicano il punto preciso in cui dovrebbe essere ancora visibile l’incisione chirurgica prodotta dalla Tigre di Mompracen o dall’Isola del tesoro. Alice mi colpì a tradimento proprio sotto l’attaccatura dell’indice, grosse macchie di sangue lo possono dimostrare, il libro lo conservo ancora come testimonianza. Ad ogni modo: fino a quel punto della mia vita – lo confesso – mi ero limitato a sfogliare le pagine degli albi illustrati: Topolino, il Giornalino, Tex Willer ecc. Guardavo le figure: mi piaceva che le storie “dedotte”, risultassero sempre diverse ad ogni nuova occasione. Con Alice fu diverso, a leggermelo fu mia sorella. Per la prima volta ho visto le idee, le parole, prendere forma nella mia testa. Il non-sense di Carroll più che aprire una breccia sfondava una muraglia intera. Non c’è sempre stata mia sorella a leggermi le favole, così ho imparato a fare da me, e ancora oggi mi capita di leggere a voce alta la notte, poco prima di prendere sonno.